Sono passati poco più di tre mesi dalla mia visita al Laboratorio di Gabriele Ribolini e, come in Agosto, ho deciso la breve trasferta perché incuriosita da un altro attrezzo del passato, una fresetta del 1750 che, per la sua misura, si inseriva fra quelli, in versione mini e maxi, pubblicati dopo la visita di Agosto dedicata anche al restauro di “clocks” con tanto di accompagnamento sonoro.
A second article about an italian mini-manufacture (thinking about Swiss architetture of watchmaking factories) and some news about an ancient miling machine of 1750.
In questo periodo sono successe tante novità, a partire dalla quarta edizione di W.O.I. che ha visto Gabriele fra i relatori di un Talk Show sul futuro dell’orologeria italiana, narrare delle sue esperienze manifatturiere, impiegando anche forti risorse personali, per realizzare in house i componenti per le riparazioni, spesso introvabili. Colpa della stretta nelle forniture da parte delle Case, che temono la poca esperienza nelle riparazioni con conseguente danno d’immagine al Marchio, ma anche perché questi lavori portano denaro fresco in abbondanza, anche se comportano tempi lunghi, sia per le riparazioni che si susseguono nei reparti del Servizio assistenza, sia per le spedizioni alla Casa madre o ai centri da questa indicati.G
Dunque, questo terzo antico attrezzo si aziona girando una manovella (ai suoi tempi l’elettricità non esisteva) e, a prescindere dalla misura, è perfetto per realizzare componenti necessari ai movimenti con scappamento a verga. Vi faccio grazia delle spiegazioni, limitandomi a scrivere che quello era uno scappamento dell’orologiera di un lontanissimo passato, al quale sono subentrati, nel XIX Sec. quelli a cilindro e poi, con lo sviluppo industriale, quelli con scappamento ad ancora svizzera nonché altri perché la creatività dei maestri orologiai non ha confini. A S.Angelo Lodigiano, oltre a trovare due “colleghi”. aspetta di essere messo in funzione in quella che forse, dopo essere passato da un’eredità all’altra, sarà la sua nuova vita operativa dopo quasi trecento anni.
Dopo averlo debitamente ammirato, siamo passati ai giorni nostri con le riparazioni degli orologi da polso, che vedono guai diversi: un graffio sul vetro minerale, la molla di carica rotta, un perno usurato e così via, sino, giacché ci siamo, al cambio del cinturino o alla riparazione del bracciale di metallo. Di un modello al top nei desideri del grande pubblico, Ribolini ricorda di essersi chiesto se il proprietario lo facesse regolarmente cadere per terra, tanto era acciaccato. Qui si inserisce un utile consiglio per evitare danni da possibili colpi che si riflettono negativamente sul movimento: allacciare sempre il cinturino seduti sul letto o a pochissima distanza da una superficie dura, basta un attimo per far cadere l’orologio.
Sul banco di lavoro c’era il movimento ultrasottile di un elegantissimo Piaget degli anni ’50 con un pignone usurato mentre poco distanti altri “pazienti” – prima e dopo le cure – erano in attesa di essere restituiti ai legittimi proprietari.
Un altro impegno attuale di questo Maestro orologiaio (che al Talk Show del W.O.I. è stato presentato come “Maestro indipendente, progettista, costruttore e riparatore”) ha visto la rimessa in sesto di un Patek Philippe anni ’50.
Potete immaginare un pignone – a 16 denti – diametro mm 1,40 con una tolleranza di 1 centesimo di millimetro? forse no, soprattutto perché è stato realizzato con una fresatrice tradizionale e non con la macchina con l’erosione a filo, arrivata recentemente, anche se ordinata da alcuni anni, e sulla quale torneremo presto perché, anche qui, siamo di fronte a una storia affascinante.
Infilato nella protezione in gomma azzurra l’abbiamo religiosamente preso fra due dita e fotografato vicino a un Euro che, fatte le debiti proporzioni, sembra davvero enorme e riducendo le proporzioni dell’immagine quasi alla realtà, il nuovo componente scompare. Se non avessimo saputo di cosa si trattava, avremmo pensato fosse un granello di polvere, arrivato sul banco di lavoro dalla porta aperta sul piccolo giardino che circonda la casa.
Da Ribolini tutto si svolge a piano terra o…in cantina (l’abitazione è al primo piano). Questa mini Manifattura lombarda presenta quella struttura edilizia, legata all’orologeria, che mi aveva incuriosito durante il primo viaggio in Svizzera, negli anni ’90, per visitare una storica Maison. Molte delle costruzioni (con il caratteristico sottotetto, dove l’orologiaio sfruttava al massimo la luce del giorno e i piani inferiori accoglievano la sua famiglia e il laboratorio con i dipendenti) sono oggi adibite solo al montaggio dei componenti principali, dando lavoro al mondo dell’indotto sempre più specializzato. Ricordo ancora lo stupore che provai andando a Bienne, al secondo piano di un alto edificio dove, in un appartamento, un Marchio importante controllava i movimenti, assemblati in altre sedi, prima di spedirli alle filiali.
Da noi parlare di “stabilimenti” significa pensare a edifici appositi dove centinaia o migliaia di addetti lavorano quotidianamente; in Svizzera, il panorama edilizio è diverso, salvo eccezioni ottocentesche o del primi decenni del secolo scorso, che hanno poi portato negli anni Duemila non solo a edifici progettati da studi internazionali di architettura, ma anche a produzioni verticalizzate per ottenere economie di scala.
La stessa Patek Philippe, la cui prima storica sede si affacciava sul lago di Ginevra, solo nel 1996 riunì a Plan-les-Ouates molti dei suoi reparti produttivi sparsi tra Ginevra e il circondario. Allora ci fu chi scrisse che stava nascendo una “cattedrale nel deserto”, ma una ventina di anni dopo, nella zona sono sorte altre Manifatture e nel 2018 con nuovi ingenti investimenti (500 milioni di FCH interamente a carico della Maison) Patek Philippe ha potuto disporre di 110.000 mq, metà destinata alla produzione, mentre a Ginevra rimanevano la sede storica, adibita a funzioni di rappresentanza, il negozio “Salon de Patek” dove si organizzano anche mostre tematiche e il Museo Patek Philippe.